Paola Sini - Edoardo Di Mauro ( interview)
Intervista con Paola Sini ed Edoardo Di Mauro presso la Galleria Art Forum di Bologna Testi Critici / 09 Dic 2013 Intervista con Paola Sini ed Edoardo Di Mauro presso la Galleria Art Forum di Bologna. Realizzazione: DI.TV Canale90... Paola Sini - Edoardo Di Mauro ( interview)Intervista con Paola Sini ed Edoardo Di Mauro presso la Galleria Art Forum di Bologna Testi Critici / 09 Dic 2013 Intervista con Paola Sini ed Edoardo Di Mauro presso la Galleria Art Forum di Bologna. Realizzazione: DI.TV Canale90
Valerio Dehò
Bad dreaming oppure Bad dreams Testi Critici / 09 Dic 2009 Bad dreaming oppure Bad dreams di Valerio Dehò L´ altro lato dei sogni, ovvero Gabriele Lamberti che rivela il lato surreale della sua pittura, ma da perfetto scientista e materialista la fa derivare da quello che mangiamo. Ovviamente avendo l’artista una laurea in filosofia, il suo pensie... Valerio DehòBad dreaming oppure Bad dreams Testi Critici / 09 Dic 2009 Bad dreaming oppure Bad dreams di Valerio Dehò L´ altro lato dei sogni, ovvero Gabriele Lamberti che rivela il lato surreale della sua pittura, ma da perfetto scientista e materialista la fa derivare da quello che mangiamo. Ovviamente avendo l’artista una laurea in filosofia, il suo pensiero non si ferma certo ai prezzi delle verdure e alla digestione lenta. Per lui il cibo che provoca molestie notturne è qualcosa di fortemente metaforico e ha che fare con la quotidiana grande bouffe iconica. Lamberti da vecchio medialista, punta il dito sulla bulimia d’immagini a cui siamo costretti e a cui ci costringiamo tutti i giorni. Ne vediamo troppe. Siamo sempre incollati a giornali, televisioni, home page e quant’altro di parossistico e compulsivo produce la Beneamata Società delle Immagini. Tutto questo bailamme ci provoca degli ingorghi sinaptici, delle indigestioni che soprattutto di notte possono provocare dei cattivi sogni. Cattivi e non brutti. Anche in questo bisogna riporre una breve attenzione. La cattiveria è una categoria morale e non estetica. Allora si vuole forse suggerire che dalla zuppa, quella Campbell e warholiana, ai disturbi del sonno la trasmissione avviene attraverso un certo orrore programmato. E’ la stessa società che sposta l’asse del male verso la zuppa iconica, la questione della bellezza è diventata solo oggetto di sbadigli o di chiacchiere al Lion’s Club. Insomma, Gabriele Lamberti punta il suo discorso sull’ onnivora realtà mediale, e ne fa un surrealismo revisited. Ottima l’idea della zuppa pandemica , ma è anche significativo come l’effetto finale sia una sorta di distorsione in cui tutto ormai sventola e danza. Le figure distorte, prosciugate o enfie, prendono a vagare sulla tela in preda ad una frenesia danzereccia., ad una danza macabra a cui siamo tutti invitati. Naturalmente l’artista ha costruito sapientemente dei quadri tematici perché non vuole dimenticare nulla e perché tutto è soggetto alle visioni notturne post crapula. Quindi abbiamo un quadro in cui i “suoi” personaggi tratti dalle fiabe s’ inseguono in un trenino scalinato, ce n’è un altro dedicato al sesso, uno alla caccia, uno ai paesaggi innevati e deliziosamente fioccosi, e poi gnomi, occhi di bambole, scarpe, anelli e così via in un’iperbole oggettuale, e oggettistica, che davvero farebbe sorridere di trionfo anche la buonanima di Andy Warhol. Gli incubi ad aria condizionata di Lamberti spostano l’asse del suo lavoro in una dimensione dinamica e visionaria che ne accentua le motivazioni ed esalta la tecnica pittorica. La sua versione degli spin paintings non poteva essere astratta e meccanica alla Hirst, ma sanamente ancorata all’anamorfosi, a quel barocco un po’ sfatto e melenso che ha qualcosa di magnifico e di trascorso. E’ un artista che conosce la storia dell’arte e ha la pretesa giustamente di voler dire sempre qualcosa con la sua pittura. Lamberti, il materialista mediatico,, stabilisce una causa effetto che non è analizzabile in laboratorio ma è da vivere nell’assenza proprio dei sogni. Il mondo baloccoso diventa sempre più serio e ha sostituito completamente l’altro inconscio, quello diciamo serio e di una volta in cui i bambini maschi, per esempio, sognavano di scoparsi la madre e di far fuori il padre. I complessi sono finiti, ci dice Lamberti, dal mondo delle immagini non si può più sfuggire, nemmeno di notte. Valerio Dehò (Testo di presentazione in occasione della mostra “Zuppa Cattivi Sogni (Bad Dreams)”, Galleria Paolo Tonin Arte Contemporanea, Torino, giugno - luglio 2009)
Bruno Benuzzi
La felice tragedia dell´infanzia Testi Critici / 09 Dic 2005 Se in occasione dei precedenti “incontri con l’autore” abbiamo considerato la più stretta attualità (per Jan-Erik Andersson si trattava di Public Art mentre con Karin Andersen ci siamo persi nel corpo delle mutazioni genetiche) nel caso di Gabriele Lamberti fulcro ineludibile della sua opera... Bruno BenuzziLa felice tragedia dell´infanzia Testi Critici / 09 Dic 2005 Se in occasione dei precedenti “incontri con l’autore” abbiamo considerato la più stretta attualità (per Jan-Erik Andersson si trattava di Public Art mentre con Karin Andersen ci siamo persi nel corpo delle mutazioni genetiche) nel caso di Gabriele Lamberti fulcro ineludibile della sua opera è la memoria; sciorinati con l’abilità del burattinaio magico, sono i ricordi d’infanzia a dominare la scena. Preso atto che le immagini di Karin paiono solleticare prospettive futuristiche legate ad una deriva bio-tecnologica già in atto, occorre altresì ribadire che, nella sua ricerca, pure la forma è supportata da procedimenti tecnici attuali (si tratta di fotografie digitali filtrate attraverso un uso disinvolto del computer dove la manualità non è affatto esclusa ed anzi spesso concorre al risultato finale). Al contrario Lamberti rimane ancorato ad un linguaggio pittorico più tradizionale, strettamente funzionale alle storie che intende narrare. E’ l’impulso reiterato al racconto che conta e, in effetti, i suoi soggetti nascono dal minuto quotidiano per sfociare in un immaginario “visionario” tangenziale alla capacità del bambino d’inventarsi storie inverosimili. Questo impulso irrefrenabile a narrare ci induce a riconoscere in Lamberti una pittura dai contorni letterari e, come nel caso storico di René Magritte, non è tanto la forma pittorica ad interessare quanto appunto i meccanismi narrativi, più o meno consci, messi in gioco. Ciò risulta ancor più evidente se focalizziamo l’attenzione su Paul Klee, anch’egli interessato a rappresentare il mondo dell’infanzia: in talune sue opere, non solo i soggetti, finanche il segno grafico sembra provenire dal mondo degli scarabocchi infantili avvalorando il sospetto di un lirismo tautologico. Per Lamberti - una volta ribadita la sua scelta di stazionare all’interno della tradizione pittorica del tutto indifferente al linguaggio istantaneo degli scarabocchi caro a Klee e, più tardi, a Jean Dubuffet - si potrebbe parlare di una sorta di “ritorno all’ordine” inscrivibile nel grande calderone del Postmoderno. Per Postmoderno s’intende, è utile ricordarlo in un contesto scolastico, quel gusto estetico allargato che a partire dagli anni ‘80 - dopo l’abbuffata delle neoavanguardie (Minimalismo, Concettuale, Body Art) degli anni ‘60 e ‘70 - ha cercato di riallacciare un dialogo col passato producendo un mélange di stili pescati qui e là in un passato più o meno recente. Se invece si parla esplicitamente di “ritorno all’ordine” il riferimento è, ovviamente, ad un preciso momento storico meno recente, ossia a quelle tendenze artistiche germogliate, in Italia intorno agli anni ‘20, in antitesi alle cosiddette avanguardie storiche (ovvero ai vari “ismi” come Espressionismo, Futurismo, Dadaismo) e che perciò preferivano anch’esse guardare a ritroso nel tempo, in particolare a Giotto o al primo Quattrocento, per recuperare un tipo di pittura plastica che mirasse ad una stasi apneumatica (Metafisica e Valori plastici erano l’etichette). Sono pittori fondamentali, se pensiamo al lavoro di Lamberti, Carlo Carrà, Achille Funi, Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, tanto per citarne alcuni, mentre se proprio si vorrà recuperare un artista più legato alle ricerche d’avanguardia la scelta di Lamberti cadrà inevitabilmente su Fortunato Depero, il più plastico fra i pittori futuristi, anch’egli cultore di tematiche care all’infanzia. Si diceva inizialmente come il tema della memoria - provvidenziale fil rouge nell’incessante mutare degli uomini e delle cose - sia centrale nell’opera di Lamberti ma va da sè che se si parla di memoria la figura di Marcel Proust s’impone d’acchito e se fosse lecito racchiudere in uno slogan il senso delle centinaia di pagine della sua monumentale A’ la recherche du temps perdu questo sarebbe: si desidera ciò che non si ha . In tale prospettiva è facile immaginare Lamberti che trafelato rincorre quel quid che ci è continuamente negato; nel suo caso sarà l’innocenza infantile ravvivata nel ricordo. Essendo tuttavia questo anelito una mera chimera ne consegue che il mondo edulcorato che sembra improntare le sue tele dovrà, per forza di cose, sottostare alla spada di Damocle di un incombente scacco ma, forse, sarà proprio tale impasse a renderlo enigmatico, affascinante. Sia come sia, la figura del puer, dell’innocente - senza scordare l’utopia del fanciullino cara a Giovanni Pascoli, quella di un’infanzia-nido fatta di continui stupori per le cose del mondo che si possono, a sghiribizzo, sia “rimpicciolire” che “ingigantire” -, ci accompagna da sempre nel corso dei secoli. E’ sufficiente pensare all’opera dell’artista e poeta inglese William Blake (1757-1827) per averne conferma. Per il visionario Blake, contrariamente a Goya, la ragione produce inganni, per lui solo le visioni e la fantasia sono realtà apprezzabili. Non sorprende pertanto il paragone che vede associare gli artisti visionari alla capacità dei bambini d’inventare storie che solo per loro sono vere. I Songs of Innocence and of Experience di Blake sono, nella prima parte, poesie pastorali che esaltano un mondo naturale incontaminato; s’irradia qui la medesima luce congeniale al filosofo Jean-Jacques Rousseau: quella di un ritorno alla condizione primigenia, al mito del “buon selvaggio”, all’Eden, ossia ad un mondo arcadico governato dall’armonia. Tuttavia i bambini, armati non di rado di repentine nequizie, non sono così innocenti come si potrebbe pensare. Già Freud vedeva nel bambino un “perverso polimorfo” incrinando in tal modo lo stereotipo di un’infanzia ovattata, suggerendo altresì come il mondo dei bambini non sia affatto asessuato a dispetto di quanto ci vorrebbe far credere, ancor oggi, un regista come Steven Spielberg. Una conferma in tal senso - la medicina amara - ci viene dal film Lord of Flies (“Il signore delle mosche”), dall’omonimo romanzo di William Golding, del regista inglese Peter Brook; in breve la trama: in seguito ad un incidente aereo alcuni bambini si trovano a vivere su di un’isola tropicale come altrettanti Robinson Crusoe e, pur non avendo problemi di sopravvivenza, regrediscono ad uno stato conflittuale, replicando il comportamento negativo degli adulti, per dedicarsi infine al culto di un totem ribattezzato il “Signore delle mosche”, uno degli appellativi biblici di Belzebù. Tornando a Blake, il poeta, nei suoi Songs of Innocence, svilisce e irride lo stato adulto dell’”esperienza”: quello delle responsabilità legato ad un logica razionale, ipocrita; peraltro Blake rivela anche l’esistenza di due tensioni, presenti sia nell’adulto che nel bambino, in continua competizione tra loro: l’annoso conflitto tra intuito ed istruzione. Ma guai a pensare le sue liriche come puerili, lo sono solo in superficie, in realtà il poeta inglese rovescia come un guanto la natura umana mettendo in luce sia l’ingenuità, l’anelito alle gioie infantili (Infant Joy è il titolo di uno dei canti), sia il cinismo, l’ombrosa ferocia, l’agnello e la tigre che convivono in noi. Ora, attualizzando questo rifiuto verso un’istruzione autoritaria che svilisce l’infanzia si possono citare i versi di una nota canzone dei Pink Floyd, Another brick in the wall : “We don’t need no education / We don’t need no thought control / no dark sarcasm in the classroom / Teacher leave them kids alone!”. Qui l’autore, Roger Waters, mette alla berlina il secondo dopoguerra inglese e magari oggi sarà più incalzante il problema contrario, il lassismo, nondimeno lo spettro d’una impostazione aziendalista della scuola - a partire dalle elementari - si fa strada persino in Italia, patria dell’umanesimo, richiamando alla mente una vetusta querelle: quella tra pragmatismo ed idealismo, tra John Dewey e Benedetto Croce. Insomma, per riprendere il discorso, è palese come l’infanzia non sia affatto tutta rose e fiori e non occorre certo cadere nella trappola dolente, retorica e strappalacrime, di una canzone italiana degli anni ‘20 come Balocchi e profumi per riaffermarlo con convinzione. Come si diceva poc’anzi, il filosofo Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) identifica nel bambino una sorta di “buon selvaggio”: nel suo pensiero filosofico l’uomo è buono per natura; saranno l’educazione e la cultura a viziarlo col tempo. Considerazioni simili valgono anche per Andrea De Chirico, meglio noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio, il poliedrico fratello (fu pittore, scrittore, musicista, critico musicale) del più celebre Giorgio: anch’egli stigmatizza l’ottusità degli adulti che livella l’immaginazione del bambino favorendo, viceversa, una razionalità asfittica. In termini freudiani si potrebbe affermare che il “principio di piacere” sia da subito sacrificato in funzione del più prosaico “principio di realtà”. Anche nel cuore del Romanticismo (fine ‘700, prima metà ‘800) filosofi e poeti amavano vagheggiare l’esistenza di una sorta di Paradiso Perduto corrispondente all’infanzia, ancora una volta percepita come un territorio fertile in cui avventurarsi. Naturalmente tutte queste riflessioni, più o meno filosofiche, non sono estranee al mondo delle arti visive una volta verificato - a partire dal primo ‘900, con l’esplodere delle avanguardie storiche - lo scarso interesse da parte dell’arte nei confronti del naturalismo. Sarà ora l’interiorità soggettiva, l’inconscio, a conquistare le vetrine e, del resto, nulla meglio dell’arte dei bambini può spalancare le porte alle profondità dell’anima. L’infanzia ha rappresentato un referente ideale per molti artisti (Klee, Picasso, Kandinsky) che bramarono la capacità dei bambini di meravigliarsi di fronte ai misteri del mondo “avvicinabili” - nel senso di Junger - solo da una mente scevra da pregiudizi, non rannicchiata nel proprio guscio, o magari in virtù di suggestioni estatiche, sciamaniche (Chagall). Era dunque a questa “visione originaria” - come ci ricorda, più o meno, Massimo Ammaniti nel suo saggio per la mostra Les enfants terribles. Il linguaggio dell’infanzia nell’arte 1909-2004 tenutasi di recente a Lugano - che bisognava guardare se si voleva emancipare l’arte dalle pastoie della tradizione accademica, dal realismo. Ma non solo, a partire dal romanticismo letterario, si mitizza una dimensione infantile in grado di fantasticare sia compagni di gioco inesistenti che arcane figure celate nei recessi più intimi della casa - qualcosa di simile ai munacielli del folclore partenopeo - o nel cuore della notte che solo la fiaba - perlomeno così era un tempo - era in grado d’esorcizzare. In definitiva, come insegna Propp, cos’è la fiaba se non un rito d’iniziazione, travasato dalle campagne alle realtà cittadine, utile a familiarizzare il fanciullo col fantasma della paura. In particolare è il timore per quella dimensione ingovernabile razionalmente che è il sonno ad inquietare. Inutile ricordare come nelle antiche cerimonie d’iniziazione i bambini venissero condotti al buio, nel folto della foresta, per sottoporli alle insidie di esseri terrificanti (l’orco, le maghe, i lupi famelici, le ombre terribili delle future fiabe). L’atto di condurre i bimbi nella foresta era una palese coercizione imposta dagli adulti nei confronti dei bambini, anche se, infine, gli incubi si “chiarivano” e il bambino poteva - dopo aver subito prove terribili - ritrovare la via di casa e cominciare a far parte del gruppo sociale. A conferma di questa pratica tribale basti ricordare quante volte ricorra nella fiaba la frase seguente: “camminarono, camminarono e giunsero in una foresta foltissima e appena vi entrarono un sonno potente cominciò ad impadronirsi di loro”. Come già sottolineato, persiste nel corso del tempo, in particolare dal Romanticismo in poi, un’idea dell’arte infantile percepita come un giardino fatato che solo la crescita e l’apprendimento trasformeranno in una bolla di sapone. Naturalmente esistono delle eccezioni: non a caso degli artisti si è soliti dire che rimangano eternamente bambini, in grado cioè di conservare un “occhio innocente” sulle cose, prigionieri consenzienti della “sindrome di Peter Pan”. Così s’esprime al riguardo il poeta francese Charles Baudelaire nella sua La morale du Joujou (“la morale del giocattolo”) rispolverata da Paul Zweig per la sua indagine sul narcisismo, The Heresy of Self-love : “Il giocattolo è la prima iniziazione del fanciullo all’arte, o piuttosto è per lui il suo primo lavoro; e, nell’età adulta, lavori più perfetti non gli daranno lo stesso calore o gli stessi entusiasmi, le stesse fedi” ed altrove aggiunge: “ Il genio è solamente infanzia riscoperta a volontà, un’infanzia dotata di organi virili per esprimersi”. Ovviamente sono innumerevoli le obiezioni a tale modo di pensare, il quesito è: esiste davvero l’”occhio innocente”? O, al contrario, è qualcosa d’artificiale come farebbe pensare l’affermazione paradossale di Picasso che sosteneva d’aver impiegato tutta una vita per imparare a disegnare come un bambino e dimenticare Raffaello. Dulcis in fundo, se analizziamo la più stretta attualità, una visione del mondo incentrata sul tema dell’infanzia è quella che contraddistingue l’opera di diversi artisti provenienti dal Sol Levante i quali, attraverso un linguaggio neopop, riscattano la cultura dei manga e delle anime avvallando così la fama del Giappone come Land of the Smile, come “isola dei beati”. Non è affatto casuale che un artista - peraltro godibile - come Yoshimoto Nara, facendo sfoggio di un ottimismo un po’ ipocrita date le contraddizioni esistenti all’interno della società giapponese, se la prenda col nichilismo proprio della musica grunge, in particolare con i testi pessimistici di Kurt Cobain, il cantante dei Nirvana, e così dichiari: “Kurt Cobain was not making songs to give hope” (“le canzoni di Cobain non spargevano speranza”) contrapponendo così, ancora una volta, il motivo dell’infanzia, filtrata attraverso l’arte, ad un mondo degli adulti dove in effetti i motivi di speranza sono scarsi. Bruno Benuzzi Testo d’accompagnamento alla lezione "Incontri con l’autore, Gabriele Lamberti", tenutasi nell’ambito del Corso di Pittura del Prof. Bruno Benuzzi (Accademia delle Belle Arti di Bologna) il 7 febbraio 2005.
Carmen Lorenzetti
Toys Stories Testi Critici / 09 Dic 2005 Un salto al di là dello specchio di Alice e ci troviamo nel vecchio paese delle meraviglie, popolato da strani oggetti e ninnoli recuperati dal mondo dell’infanzia o da quello di una normale quotidianità. Sono immobili e muti, stupiti almeno quanto noi di vederci – con i loro occhi grandi e sp... Carmen LorenzettiToys Stories Testi Critici / 09 Dic 2005 Un salto al di là dello specchio di Alice e ci troviamo nel vecchio paese delle meraviglie, popolato da strani oggetti e ninnoli recuperati dal mondo dell’infanzia o da quello di una normale quotidianità. Sono immobili e muti, stupiti almeno quanto noi di vederci – con i loro occhi grandi e spalancati - davanti al “loro” specchio. Di fatto, per quanto si cerchi di fronte a quelle icone messe in posa di trovare la traccia di un racconto, ci si scontra con una logica anti-narrativa, che non configura altro da se stessa ovvero il legame simbolico che unisce tra loro le immagini e queste alla nostra coscienza. Allora si scopre in questo fare pittorico la consistenza gommosa e gelatinosa delle figure, il loro essere un riflesso deformato, il loro liquefarsi alla base come per un eccesso di calore e il loro finire in pezzi, oggetti d’affezione ad un grado avanzato di erosione. Si sente quasi l’odore dolciastro dello zucchero filato e il sapore dei dolciumi, montagne di panna montata, cibi da consumare fino alla nausea. Si coglie infine l’essenza perturbante del mondo cui costantemente la pittura di Gabriele si riferisce. Carmen Lorenzetti (In occasione della mostra: Gabriele Lamberti, Toys Stories, Caffè Zanarini, Bologna, dicembre 2005/gennaio 2006)
Marisa Vescovo
NEL SEGNO DI PAN Testi Critici / 09 Dic 2004 Se l´arte, come ha osservato Gianni Vattimo, tende a trascolorare nella suggestione sensoriale dei mezzi di comunicazione, l´individuo a sua volta si identifica coi prodotti — intenzionalmente superficiali e inautentici — della società dello spettacolo, col flusso di quell´intrattenimento, c... Marisa VescovoNEL SEGNO DI PAN Testi Critici / 09 Dic 2004 Se l´arte, come ha osservato Gianni Vattimo, tende a trascolorare nella suggestione sensoriale dei mezzi di comunicazione, l´individuo a sua volta si identifica coi prodotti — intenzionalmente superficiali e inautentici — della società dello spettacolo, col flusso di quell´intrattenimento, che invita a venire subito consumato e dimenticato. La cultura che si autodefinisce civiltà dello spettacolo nega quella dialettica tra vita e rappresentazione, nella quale si costituisce — in un continuo scambio di verità e finzione, e in un continuo gioco dei ruoli — la mobile identità dell´io. In questa società che preferirei chiamare della "rottamazione", il nuovo divora il vecchio, lo espelle, lo annienta, negando il ruolo e l´identità degli oggetti ai quali noi ci leghiamo affettivamente proprio attraverso il loro uso nel tempo. Siamo figli di una società che educa al consumo per il consumo, provocando così dei danni profondi perchè trasforma le "cose" in misere metafore di transito verso relazioni umane che diventano sempre più limitate, indifferenti, distaccate, destinate ad essere messe in un cestino e gettate. Gabriele Lamberti, attraversando i sentieri della polisemia, degli slittamenti di senso, delle associazioni simboliche, e dunque dalle riconnotazioni derivate dai processi creativi di un "pensiero laterale", sente che si può riqualificare l´oggetto anche in senso pragmatico, etico, purché contenga un MOTIVO, un´idea che mette in moto la nostra immaginazione. Immaginazione che si sviluppa esternamente alle cose, e ingloba in sé SENTIMENTI IMMAGINATI, inespressi che un artista sensibile come Lamberti è in grado di fare propri. Partendo da queste non piccole certezze Lamberti si muove alla ricerca di quelle piccole , povere, "cose" che vediamo , con un misto di orrore e vergognoso desiderio di possesso, nelle vetrine delle tabaccherie, nei negozietti di souvenir delle stazioni, nei mercatini di quartiere, e li rimette "insieme", costruendo minuscoli set, o teatrini, con questi giocattoli "trash", li studia al computer, ne intensifica o pulisce il colore, elimina particolari inutili, e poi costruisce delle “storie” dipinte con mano felice, ironiche e affabulanti. La verità è che Lamberti con questo gruppo di opere crea un mondo di fiaba innestato sulla cultura popolare e frutto dell´innocente, ma non troppo, immaginazione di un´infanzia non ancora corrotta dal progresso, che magari non vorrebbe crescere per non affrontare la violenza del mondo adulto, cercando quel significato di redenzione che è al fondo di tutte le fiabe che conosciamo. In questi lavori — "Pesci rossi e cavallino" (2000), "La fatina dei biscotti" (2001), "Piccolo presepe" (2002), "Olandesini" (2004) — gli animali gettano la maschera e da ranocchi si mutano in principesse, le fatine, come San Francesco, si portano dietro conigli e uccelli di panbiscotto, bambine-biancaneve, con i nani, si sciolgono al sole come gelatine, immersi in universi di verde acido e infistolito, di rosa e zucchero caramellato, azzurri senza fine, come certi scintillanti scenari televisivi. Ma un altro dipinto " Peter, Wendy e Campanellino", con i suoi personaggi dagli occhi stupiti e obliqui da ceramiche Lenci, ci porta sulla giusta strada, infatti sentiamo chiara la canzone della fanciullezza dove tutto è bene, perchè tutto è gioco, eppure tutto ciò che ci circonda ci dice che la giovinezza non è l´età che introduce alla vita, ma l´unica età della vita che conti, prima c´è una pre-vita e dopo c´è un dopo-vita, una morte. Il giovane — e in molti sono a ricordare la Giovane Italia, la Giovane Germania e la Giovane Polonia — sente di più, vuole di più, ha più forza. Ci hanno detto che ilfanciullino nascosto nell´uomo è la fonte della poesia, l´occhio che la vede, l´orecchio che la sente, e conta assai poco che la psicanalisi ci abbia messo invece in guardia sulla non innocenza, e magari perversità che stanno in fondo al bambino. In un suo recente libro: "Immaturità", Francesco Cataluccio ci propone la tesi — la quale ben si sposa con la ricerca di Lamberti — che durante "il Novecento, Peter Pan, da demone qual è, si è intrufolato dappertutto (come è naturale, dato il significato del suo nome: pan = tutto), dall´animo degli adolescenti alle canzonette" e ci dice ancora che oggi Peter Pan ha forse trovato una delle sue possibili reincarnazioni nel cantante Michael Jackson, popolarissimo fra i dodicenni, che vive in California in un gigantesco ranch, nutrendosi di insalate "Peter Pan", con una voce bianca che non ha la scadenza improrogabile di diventare adulta. Questi piccoli personaggi ci ricordano che l´immaturità provoca disastri, e conduce su una strada dove si incontra la banalità del male. È di qualche giorno fa la terribile immagine della donna torturatrice che, in Iraq, dichiara che "è DIVERTENTE trascinare un prigioniero al guinzaglio". Una libertà, o meglio un gioco incredibilmente perverso, che può anche far perdere una guerra. Un lato affascinante di questo lavoro è però anche quello legato alle mutazioni o metamorfosi, ai sortilegi da provetta, pensiamo ai "Ranocchi rossi" o “Ranocchi blu" (2001), specchi delle nostre pulsioni profonde, dei nostri istinti addomesticati o selvaggi, animali lunari che con i loro occhi a fanale sembrano chiamare la pioggia o indicare un cambiamento di stagione, quindi simboli di resurrezione, che tornano sempre al punto d´origine. Le rane blu, o rosse, sembrano aspettare il dio Pan, e ci appaiono come creature nuove e diverse, portatrici di tensioni e sensazioni che vengono da un “altrove” ancora inconoscibile. Altri esseri che escono dal pennello di Lamberti mi intrigano moltissimo, penso a "Laa-laa danza" (2003), o "Scorcio sul tè", nel primo dipinto una Teletubbies televisiva si muove con le sue orecchie a tromba che pare ricevano segnali da altri mondi, nel secondo campeggia un fratellino di ET che sembra in atto di stabilire contatti alieni, mentre gli oggetti dietro di lui si deformano, diventano estranei all’ abituale, e assegnano al quotidiano il con- trassegno esotico del perturbante. Comunque l’ipotesi che la vita sul nostro pianeta provenga da altri punti dello spazio è meno fantascientifica di quanto si presume: sembra infatti che le seminatrici di vita potrebbero essere le comete, in quanto tra le sostanze che le compongono sono state trovate anche delle molecole organiche. Volendo trovare dei padri e delle madri a queste creature di Lamberti non possiamo non ri-andare ai Loplop di Max Ernst, agli uccelli, ai pesci rossi, che si stagliano sospesi nel vuoto di Mirò, ai cerbiatti felici di Franz Marc, disegnati da una "seconda vista" che vorrebbe cambiare il mondo, alle "Amalassunte" di Osvaldo Licini, che passano leggere, irridenti, misteriose per i cieli dell´universo a cercare magiche energie sui monti Sibillini. Non è un caso che dietro tutto ciò ci sia il ricordo del dadaismo. Benjamin, come Valery, ci ha infatti detto che sarebbe facile scomunicare questo mondo intermedio di forme e di colori, di cose animate, confinandoli nella notte dell´irrazionale, e del sogno, restituirli al mito, ma è anche pericoloso regredire certe realtà semplicemente a favola, o a meraviglioso. Infatti la fanciulla vittima di un incaniesimo è il nostro IO, mentre l´EROE è l´archetipo del SÈ, che corre in soccorso dell´IO per guidarlo con consapevolezza. E in questo momento c´è grande bisogno che gli artisti ci guidino, come possono, verso la consapevolezza. Marisa Vescovo (dal catalogo: GABRIELE LAMBERTI, Nel segno di Pan, Studio Vigato, Alessandria, giugno 2004)
Valerio Dehò
I Teledubbies ci guardano. Il posto delle favole Testi Critici / 09 Dic 2000 I Teledubbies ci guardano. Il posto delle favole. Ci sono delle perversioni che le società tollerano in silenzio perché le sono comunque funzionali. Quali sono i bisogni che vengono generati da figure carismatiche come Ken o Barbie? Cosa nascondono le loro faccine pulite e così perbene? Dietro... Valerio DehòI Teledubbies ci guardano. Il posto delle favole Testi Critici / 09 Dic 2000 I Teledubbies ci guardano. Il posto delle favole. Ci sono delle perversioni che le società tollerano in silenzio perché le sono comunque funzionali. Quali sono i bisogni che vengono generati da figure carismatiche come Ken o Barbie? Cosa nascondono le loro faccine pulite e così perbene? Dietro c’è tutta una politica familiare, una pianificazione razziale al confronto della quale l’eugenetica hitleriana (ma fu scoperta dagli svedesi alla fine dell’800), è una grattatina sulla schiena di uno psoriaco. Rassegniamoci : vi sono dittature molto più invasive e pericolose dei ducetti che sbraitano dai balconi. Ken e Barbie, coppia cosmica degli ultimi trent´anni di storia mondiale, con l’aggiunta del muscolare e amante potenziale Big Jim, sono una triade perniciosa più della Yakuza, il paradigma di tutte le famiglie possibili: almeno di quelle che si rispettano per la loro eterna felicità. Milioni di bambini nel mondo hanno costruito le loro strutture familiari (interiori e culturali) prima che fattuali, su questi campioni della genetica statunitense. I giocattoli ci guardano. Purtroppo. Con i loro occhietti perversi, con le loro movenze sdolcinate impongono la loro presenza nell’intimità domestica, nell’alcova che abbiamo faticosamente edificato a colpi di sanguinosi mutui. Naturalmente la porta d’acceso di queste perfide creature sono bambini, i nostri affetti più cari. I pargoli, biondini e riccioluti a cui abbiamo affidato il futuro sono i primi possessori e adoratori di queste creature al limite del codice penale, sempre al di sotto comunque di ogni codice estetico. Pensate ai Teledubbies che fanno veramente schifo nella loro bruttezza. I Pokemon almeno sono simpatici, Pikaciù è tenero come un cucciolo di gatto, anche se la sua sembra il frutto della perversione domenicale di uno scienziato giapponese in crisi depressiva. I Teledubbie sono poi degli ibridi perché mettono insieme il loro essere giocattoloso, con un bel video aperto sulla pancia, come un’appendicite che non rimargina mai, come un buco nello stomaco che solo uno spot televisivo può riempire. Lamberti merita più di un posto nella storia dell’arte contemporanea, perché è una specie di vigilante sulla nostra psiche. In un suo quadro colloca i Teledubbies in un plateau di profumi. Coglie questo legame con l’accarezzamento sensuale, i giocattoli vogliono confondere i nostri sensi, inebriargli i sensi; renderli stupidi e inermi. Lamberti ha capito tutte queste cose da molto tempo e continua a impaginare un magnifico libro di dolci mostruosità , un Kraft-Ebing del cadeau commerciale. L’artista allarga il suo orizzonte dal giocattolo storico, datato, affascinante perché il tempo compie sempre un’opera di riscatto, ma conosce bene quello che accade nel mondo del commercio attuale. Non si rifugia nella facile e sempre accessibile nostalgia. Anche il Mulino Bianco è uno suo must. Lamberti ricolloca questo simbolo della contemporaneità, un vero e proprio mito d’oggi, nel suo contesto originario: un paesaggio ricostruito secondo le sue caratteristiche di idealità. Come immaginate la campagna? Ecco, ve la facciamo così come la sognate. Perfetta, senza tafani né odori stomachevoli, languida con pastorelli arrivati direttamente da Lourdes: tutte le mattine. Quando anni ma una amica senese mi accompagnò a vedere l’originale Mulino bianco nella campagna verso Massa marittima, non credevo ai miei occhi. Il mulino esisteva davvero ma era stato già falsificato, era stato realizzato in bianco perché funzionale ad una sorta di immaginario di purezza campagnola. In effetti la costruzione era di mattone, come molte cose del genere. Ma tutto era diventato uno fiction, era già stato costruito un set cinematografico per i consumatori. Gabriele Lamberti vuole destrutturare queste immagini, esaltare l ‘elemento mieloso e appicicoso che questi si portano appresso. Legge ,studia, analizza questo universo eternamente sorridente. Il suo non è certo un lavoro di ready made. Preleva le immagini da fotografie, che realizza personalmente, le monta attraverso il computer. L’elaborazione ha questa processualità accurata, costruita. Lamberti sa che non è possibile rispondere al professionismo della comunicazione con un arte approssimativa e istintuale. Il suo è un lavoro di censura addiditiva. Lui fa esplodere dall’interno le contraddizioni dei giocattoli-simbolo. Non opera in modo retorico, ma entra nell’oggetto caricandolo al contrario. La fase finale della pittura a olio restituisce lo sguardo della pittura, la sua neutralità per cui in passato una Betsabea faceva la sua figura accanto alla casta Susanna, ma anche consente di rivelare la finta innocenza. Sono personalmente debitore a questo universo, a questa sublime Manichinia, che viene sempre voglia tornare a raccontare. Una Toy story infinita perché i giocattoli ci guadano, sono in noi: anzi stiamo cercando di somigliarci sempre di più, perché ormai non abbiamo più modelli ideologici se quelli della pubblicità. Questo è estremamente pericoloso, ma affascinate. Naturale o artificiale non importa. Il gioco ha perso la sua capacità di legare, di preparare alla vira almeno parzialmente. Il mondo dei bambini e invaso da sdolcinatezze viennesi, da sacher-pensieri. Tutte proiezioni adulte, sbagliate, su come è effettivamente il mondo dell’infanzia. Ma in ogni caso si tratta di un mondo di merci che tendono a sostituire la realtà. Tutto diventa terribilmente attaccaticcio, ma anche coinvolgente. Risulta perfino affascinante, e questo Lamberti lo capisce molto bene perché costruisce sempre dei paesaggi diversi, sempre nuove trappole visive. Ha compreso che ogni giocattolo si tira dietro una propria storia, possiede quindi una proprio individualità. Queste storie visive hanno un doppio fondo, come nei racconti di fate analizzate da Propp o nelle storie mitteleuropee dei fratelli e linguisti Grimm: però a questo punto ci accorgiamo che gli esserini disgustosi, figli del marketing, hanno finito per prendere il posto delle favole e dei loro protagonisti. E allora sommessamente ci domandiamo: “ Che sia proprio finita?” Valerio Dehò (dal catalogo della mostra: Gabriele Lamberti, Cuori a molla, Galleria Paolo Tonin Arte Contemporanea, Torino, 2000)
Roberta De Simoni
Intervista su "Art´è" (Novembre 1999) Testi Critici / 09 Dic 1999 Intervista con Roberta De Simoni di "Art´è" (Novembre 1999) Roberta De Simoni: Nei tuoi quadri compaiono spesso giocattoli o personaggi fiabeschi, com´è nato il desiderio di rappresentare proprio questi soggetti? Gabriele Lamberti: Non ci sono delle ragioni precise per le quali... Roberta De SimoniIntervista su "Art´è" (Novembre 1999) Testi Critici / 09 Dic 1999 Intervista con Roberta De Simoni di "Art´è" (Novembre 1999) Roberta De Simoni: Nei tuoi quadri compaiono spesso giocattoli o personaggi fiabeschi, com´è nato il desiderio di rappresentare proprio questi soggetti? Gabriele Lamberti: Non ci sono delle ragioni precise per le quali ho cominciato a lavorare utilizzando immagini di giocattoli, pupazzi e personaggi di fiabe e cartoons; è stato un percorso naturale per me. Forse una causa può essere che mi sono occupato di bambini tempo addietro, voglio dire che ho lavorato per diversi anni in un asilo nido, in case di vacanze per bambini, ho insegnato nelle scuole elementari. Queste esperienze mi hanno messo a contatto col mondo dell´infanzia e mi hanno portato ad interrogarmi su alcuni modelli di rappresentazione e su alcuni simboli che popolano l´immaginario della comunicazione per l´infanzia. Ho verificato poi che questi modelli mantengono la stessa carica comunicativa anche per gli adulti, se li s´inserisce in un diverso contesto. R.D.S.: Trovo vi sia qualcosa di inquietante nei tuoi quadri derivante forse dal contrasto tra il soggetto "leggero", peraltro ricorrente, dei giocattoli e le idee non sempre altrettanto leggere che vi si celano Come nasce questo contrasto tra un significato d´uso dei giocattoli e un loro significato simbolico. G.L.: In parte dipende dalla decontestualizzazione alla quale vanno incontro quando vengono immessi in un ambiente che non è il loro. Se io sposto una chiave inglese dall´officina alla camera da letto, costringo lo spettatore ad assegnare a quell´oggetto un senso diverso da quello che ha nel suo luogo consueto, l´officina. È il processo su cui si basa tutta l´arte concettuale da Duchamp in poi. Bene, a me non interessa tanto uno spiazzamento logico, un mero gioco linguistico fatto con la grammatica delle immagini ma piuttosto il paradigma delle certezze che attribuisce ad ogni personaggio in scena un ruolo prefigurato e univoco. Mi piace che gli oggetti in scena diventino polisemici, possano sfuggire al loro compito. Ho dipinto nani di Biancaneve assai poco rassicuranti, Cappuccetti Rossi che portano lupi al guinzaglio. I Giocattoli hanno poi in se stessi la loro storia, non occorre cambiare nulla, è sufficiente presentarli...bene. Mi piace in particolare dipingere giocattoli occhiuti perché gli occhi di certi giocattoli mi ricordano quelli degli uccelli rapaci e dei felini. Un altro motivo che mi ha portato a scegliere immagini di giocattoli è il valore terapeutico, taumaturgico che viene loro assegnato, come se fossero in grado di risanare le ansie e le depressioni di chi li regala e di chi li possiede, forse perché hanno inscritta la loro storia che è quella di averci fatto divertire quando eravamo piccini e spensierati (?). Vedere in loro quella vitalità catartica quella potenzialità d´essere alieni rispetto al mondo serio degli adulti, li rende tanto graditi a tutti i Peter Pan che dilagano fra i membri della mia generazione e di alcune più giovani. R.D.S.: Ti senti anche tu afflitto dalla sindrome di Peter Pan ? G.L.: Sì certamente, io mi lascio lusingare ancora oggi che ho passato i quarant´anni, dal mito dell´eterna gioventù, spirituale, perché il corpo fa la sua strada. Mi piace chi riesce a mantenere integra la voglia di migliorarsi, di stupirsi, di indignarsi, di appassionarsi, di sentirsi sempre "non ancora maturo" , che non vuol dire non responsabile. Non maturo, per me vuol dire non sentirsi arrivati, vivere sempre con la testa in primavera. Non so se ho reso l´idea. R.D.S: Che ruolo ha la fotografia nel tuo lavoro o meglio, se vuoi, esiste anche nel tuo lavoro un rapporto fotografia - pittura? G.L.: Oggi la pittura delle ultime generazioni fa molto riferimento alla fotografia. Alla fine del XIX secolo era la fotografia che guardava la pittura; alla fine del XX secolo è la pittura che guarda la fotografia. Questo è conseguenza di una diversa percezione delle forme del mondo dovuta anche allo sviluppo della tecnologia che ha spostato lo sguardo dell´artista e ne ha mutato l´immaginario. In quest´avvicinamento però la pittura non deve cercare di identificarsi con la fotografia o con l´immagine dello schermo televisivo. La pittura deve mantenere la propria autonomia linguistica rispetto alla fotografia; autonomia che è libertà e disciplina del mezzo, insieme. La disciplina della pennellata consiste nell´arrivare dopo un periodo più o meno lungo, a considerare ogni tocco di colore, ogni stesura del pennello come una nota musicale necessaria e indispensabile, insieme alle altre, all´armonia che scaturisce dall´insieme. La libertà è essenzialmente l´unicità dell´opera conseguente all´atto manuale di un individuo in grado di produrre, mediante il controllo dei suoi mezzi, un´opera unica, originale, irripetibile com´è un´opera fatta a mano. Quando la pittura tenta di avvicinarsi troppo alla fotografia, imitandone pedissequamente il suo aspetto meccanico, fallisce il suo intento per un duplice motivo; primo perché cerca di diventare la copia di una copia, quando la prima (la fotografia) dal punto di vista tecnologico è inimitabile perché ha nel proprio dna l´esattezza matematica che la mano umana non ha. Secondo, perché rinuncia a sviluppare le potenzialità espressive che sono proprie della pittura e che la fotografia non possiede. Questa è naturalmente una opinione personale, so bene che ci sono esempi di quadri iperrealisti che potrebbero contraddire quello che ho sostenuto precedentemente ma io penso invece che ne avvalorino la sostanza in quanto ciò che nei quadri iperrealisti costituisce il pregio dell´opera, la perizia, la maniacalità tecnica, ne costituisce anche il limite. I limiti cioè entro i quali si dispiega il valore del quadro iperrealista sono quelli dell´assoluta fedeltà al modello fotografico. Io penso che la pittura non debba avere questi intenti; non debba fare il verso all´immagine tecnologica. Può servirsi di quella in fase progettuale ma per sviluppare poi tutti i mezzi che le sono propri e che afferiscono essenzialmente alla manualità (che non vuol dire gestualità). R.D.S: Come realizzi i tuoi quadri?…Parti ad esempio da pupazzi e giocattoli esistenti o lavori di fantasia? G.L.: Occorre una fase progettuale, a volte anche lunga, prima di arrivare alla stesura del colore sulla tela. Durante la progettazione del quadro organizzo il lavoro come un regista teatrale: compongo la scena, decido l´illuminazione, i rapporti spaziali, le dimensioni, le angolazioni, le prospettive, i rapporti cromatici. Queste operazioni generalmente partono da un´idea di base che poi sviluppo con successivi bozzetti manuali o col computer. Le idee mi arrivano abbastanza casualmente: sfogliando cataloghi o altre pubblicazioni, osservando in giro oggetti che attirano la mia attenzione, spesso in sogno, poi ho tanti amici che come dei "reporter" mi mandano dai loro viaggi cartoline illustrate con giocattoli oppure pupazzetti di vario tipo, oppure li prendo dagli Ovetti Kinder, dai piccoli oggetti del Mulino Bianco. Ci deve essere fin da subito una forte empatia con un soggetto, lo devo sentire carico d´energia, capace di catalizzare e suscitare emozioni, solo allora decido di lavorarci su e di farne un quadro. Passo alla fase progettuale che è fatta di tutti quei momenti di cui, ti parlavo prima anche se ultimamente disegno sempre meno e lavoro più col computer, soprattutto perché mi consente di intervenire sulle varianti cromatiche. Quando, dopo lunghe manipolazioni digitali, sono soddisfatto del progetto, ne stampo una copia che mi serve da riferimento e trasferisco l´immagine così elaborata sulla tela. Da questo momento incomincia il lavoro vero della pittura ed è il colore, con i suoi accordi, le sue stesure, i suoi cambiamenti e le sue combinazioni a dettare legge. Lavorando manualmente col colore non ottieni mai quel risultato che avevi progettato, magari con la macchina. E´ in questo margine d´aleatorietà che sta il fascino e il segreto dell´evento artistico. E´ l´unicità di un risultato irripetibile. Sono io che trasformo un´opera tecnologicamente riproducibile in un pezzo unico e originale. R.D.S. : Nella tua iconografia sono apparse recentemente figure che apparentemente hanno ben poco a che fare col mondo rassicurante delle fiabe e dei giocattoli. Mi riferisco in particolare ai lavori esposti nella galleria di Paolo Tonin nel maggio del ´98 dove comparivano molti scheletri e mummie. Da dove sono saltati fuori tutti quegli scheletri? G.L. : Sono l´aspetto sinistro della fiaba. Dopo anni passati a dipingere giocattoli, volevo dedicarmi per un po´ ad alcune figure inquietanti dell´immaginario fiabesco anche se il lato sinistro delle storie mi ha sempre interessato ed ho cercato sempre di esprimerlo. Ho fatto cappuccetti rossi che portano lupi al guinzaglio, sette nani che annegano Biancaneve nel tè o che la spiano mentre dorme nuda, orsi enormi che escono minacciosi da biberon o che si portano via il loro padroncino, branchi di lupi che incombono su bimbi sperduti nel bosco, conigli che spiano umani nei più diversi accoppiamenti ed altre situazioni per lo meno ambigue. In quei quadri con gli scheletri mi interessava creare dei teatrini grotteschi in cui mettere in scena un´immagine macabra (lo scheletro appunto) che avesse però i tratti della pantomima più che dell´horror, che fosse la parodia dell´horror. In altre parole sono scheletri da teatro delle marionette, dove anche "La Morte " ha la sua funzione catartica. Tutte le buone fiabe per funzionare devono avere il loro elemento orrorifico (il lupo, l´orco, la strega, il drago, lo spettro...) altrimenti i bambini (e gli adulti, che sono bambini invecchiati) non si divertono, non agisce il meccanismo della catarsi che giunge a purificare gli spettatori dalla minaccia incombente; su questo aspetto ha detto molte cose Bruno Bettelheim. Nelle fiabe russe poi c´è un personaggio che si chiama proprio " Lo Scheletro", ne parlano Vladimir Ja. Propp e Aleksandr N. Afanasjev. R.D.S.: Vorrei adesso che mi parlassi del Medialismo, dicendo magari quanto è rimasto nel tuo lavoro d´oggi di quella situazione e in che cosa il tuo utilizzo dei media si differenzia ad esempio dall´uso che ne ha fatto la Pop Art . G.L.: Nel mio lavoro d´oggi è rimasto tutto ciò che ha caratterizzato la mia appartenenza di allora e cioè l´immaginario mediale che ha segnato profondamente la memoria della mia generazione e di quelle successive ed ha riguardato il rapporto fra reale e " virtuale" nonché il sistema della comunicazione, compresa la lingua parlata tutti i giorni. E´ ormai impossibile prescindere del sistema mediale, tanto ha pervaso la sfera pubblica e privata. La nostra scommessa o perlomeno la mia era però differente da quella pop e neopop in quanto si trattava di ridefinire l´immaginario mediale in una sfera individuale, privata tentando di estrapolarlo dall´omologato stereotipo di massa per proporne una coniugazione poetica più legata al vissuto intimo, personale, individuale, profondo di ciascuno di noi. Per me si trattava quindi di un percorso inverso a quello di artisti pop come Warhol e Lichtenstein in quanto loro amplificavano un concetto, ripulendolo di tutte quelle connotazioni che lo avvicinavano al vissuto e lo restituivano nella sua forma di simbolo della fruizione collettiva. Per me sono importanti invece tutti quei segnali che identificano un´appartenenza e che restituiscono un oggetto comune, banale, stereotipato ad un vissuto personale, individuale, unico.
Gabriele Perretta
Macchine di teatro da camera Testi Critici / 09 Dic 1993 Macchine di teatro da camera "Mito, tragedia, sogno, fantasma - e il mito e la tragedia reinterpretati in funzione di sogni e del fantasma - ecco la serie rappresentativa che la psicoanalisi sostituisce alla linea della produzione, produzione sociale e desiderante. Serie di teatro, al posto della s... Gabriele PerrettaMacchine di teatro da camera Testi Critici / 09 Dic 1993 Macchine di teatro da camera "Mito, tragedia, sogno, fantasma - e il mito e la tragedia reinterpretati in funzione di sogni e del fantasma - ecco la serie rappresentativa che la psicoanalisi sostituisce alla linea della produzione, produzione sociale e desiderante. Serie di teatro, al posto della serie di produzione. Ma, appunto, perché la rappresentazione divenuta soggettiva assume questa forma teatrale ("tra la psicoanalisi e il teatro sussiste un nesso misterioso...") è nota la risposta eminentemente moderna di certi autori recenti: il teatro libera la struttura finita della rappresentazione soggettiva infinita. Quel che significhi "liberare" appare assai complesso, poiché la struttura non può mai presentare se non la propria assenza o rappresentare qualcosa di non rappresentato nella rappresentazione: ma è privilegio del teatro - si dice - mettere in scena questa causalità metaforica e metonomica che segna insieme la presenza e l´assenza della struttura nei suoi effetti". Deleuze e Guattari (L´anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975, pag.348) "II vantaggio della cattiva memoria è che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta". Nietzsche (Umano troppo umano) Siamo giunti rapidamente nel cuore di una nuova civiltà che, dal punto di vista geografico, si estende a tutto il mondo, e dal punto di vista della produttività è caratterizzata dalla tecnica. Sotto l´aspetto estetico ed artistico la civiltà del nostro tempo risente dell´atmosfera di divisione ed eterna diatriba che distingue l´immagine della tecnica da quella della sua negazione, fino a farne una nuova realtà della rappresentazione che si sviluppa in una maggiore disponibilità, comodità, efficienza , benessere. Si potrebbe dire che l´Adamo della situazione artistica odierna è conteso tra la ricostruzione di un paradiso terrestre mediante le possibilità che la tecnica gli offre, le quali non sono mai definitive, nè esaurienti, e un´angoscia che si esprime in qualche modo in uno status in quanto progetto di miglioramento non tecnico della tecnica, continuamente spostato verso il presente che rappresenta un surrogato dello status di felicità che l´arte aveva destinato ad espressioni come la pittura prima della distruzione della sua "aura". Perdita del senso del presente come posizione nel presente. Completamente immerso in quest´atmosfera di dipendenza o indipendenza tecno-scientifìca è l´artista di oggi. Tanto nell´indipendenza assoluta, quanto nell´assoluto concettualismo adesivo che considera la materia della pittura unica sostanza dell´essere contemporaneo, la realtà subisce un vano tentativo di mutilazione e in entrambi i casi la fantasia sta all´immaginazione come la razionalità sta all´immaginario. Appare più semplice riconoscere che invece di una distinzione ideativa di materia e spirito, di razionalità e irrazionalità vi si riconosca un´esigenza concettuale della ragione. Non dimenticando che la ragione umana rappresenta, anche nella scelta di una probabile affa-bulazione o di una necessità del sogno che si fa un segno, un grado molto alto dell´esistenza umana, non quindi estendibile ad altre entità. L´autocosciente ragione immaginativa ed immaginaria del pensiero umano, che volontariamente si indirizza ai fini di indagine e di azione che esso stesso si prefìgge in modo libero, autonomo, ha prodotto l´esperienza della psicoanalisi. Per questo uomo del nostro tempo così efficiente, ma così sprovveduto di fronte alla potenza della tecnica ci vuole, dunque, la distanza della pittura, una pittura, però, che non venga liquidata attraverso la funzione di poche battute di fronte al senso profondo della vita e della potenza della tecnica, ma una pittura che rientri nei limiti della propria esistenza dove solo la "tecnica della pittura" può essere lo scoglio di se stessa, proprio come se essa stessa fosse una estensione naturale in grado di cogliere l´esigenza concettuale della ragione. In questo episodio notturno e diurno della ragione, che fa seguito, come scena di contrappasso, a quella esaltante dell´eroicità, la pittura può ritrovare se stessa, quando la sua condizione "tecnica" segna le sue ore più amare e tutto può servire a difendere il suo scopo perché le amicizie svaniscono e la composizione stessa del suo linguaggio diventa una delle soluzioni necessarie nel presente, perché sulla vita non si stenda un velo opaco, incomprensibile, lontano dalla semplicità e dai sentimenti della sua conoscenza. La pittura vive per noi un momento simile, lo ha sofferto come e più di quanto sia dato a noi soffrirlo, passando attraverso le spire contorte del serpente "manierista" e neoespressionista ed ha inquadrato questa differenza sostanziale che è stata scelta come l´alfa e l´omega della creazione pittorica: una iconografia che, sul fondo di una forte razionalità pittografica, non guarda alle regole del gioco linguistico come transitorietà di un ordine abitabile del linguaggio, ma come forma concreta delle forze dell´immaginario. È il clinamen etico del gioco linguistico della pittura. Una pittura che al di là di ogni altro mezzo si fa provocazione di un territorio più ampio e forma di interrogazione di quel territorio stesso. Il concetto di pittura ha ampia estensione, deriva infatti da un punto di vista ormai acategorico, cioè applicabile universalmente, oltre linee, colori ed iconografìe. L´opera ottenuta con tale arte - murale, su tela, a olio - è una descrizione vivace ed efficace dei caratteri "espressi" sin dalla prima apparizione ai nostri occhi del lavoro di certa iconografia. La sua definizione sarebbe sin qui facile. Basterebbe ricordarsi di uno dei dialoghi di Platone, quello fra Socrate e Ippia per rivalutare un pensiero di Pascal: "che cosa vana la pittura, che attira l´ammirazione per la somiglianza di cose di cui non si ammirano affatto gli originali". In effetti è legittima la riflessione di Lessing nell’Emilia Galotti quando dice che: "il Raffaello sarebbe stato il più grande pittore anche se fosse venuto al mondo senza mani". Dunque, non resta che affermare che Gabriele Lamberti è proprio discendente del Raffaello di Lessing. E la testimonianza degli accertamenti di tale pittura, che può essere fatta senza mani, è data proprio dalla sua particolare composizione che è fatta anche di mani. Se è vero che con la pittura, come prima dicevamo, senza nominare Paul Valery "II Pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà" (P. Valery, Mauvaises pensées et autres) allora la pittura deve essere esercizio di scetticismo, ovvero ricordando Leonardo nel Trattato di pittura "Quel pittore che non dubita poco acquista". Però è diffìcile che l´uomo di oggi possa essere raggiunto da questo insegnamento che presuppone un confronto diretto o indiretto col mondo della tecnica ed una preparazione ad un gioco adeguato al linguaggio. I pittori sono in qualche modo un´incarnazione dello scetticismo, della provocazione. Quando riescono ad essere santi essi attraggono come la televisione attrae ed estinguono la sete dell´immagine che arde sotto la cenere della comunicazione avanzata. Il pittore rivela la sua dose di scetticismo come il fiore, l´acqua e con la grazia di un intellettuale senza pregiudizi. Non solo per la pittura, ma per chiunque collabori alla grande opera del porre dubbi può accadere quello che accade al congegno per organizzare "le macchine di teatro da camera" di Gabriele Lamberti. "La memoria è il ricettacolo e l´astuccio della scienza" diceva Montaigne nei Saggi e la memoria come macchina è uno strano impasto di impressioni collettive, ordinariamente incantate o disincantate. Accingendomi a rileggere il lavoro di Gabriele Lamberti, a distanza di pochi anni, non posso non rilevare come sia maturata una stagione di indizi che stavano già sull´onda delle cose a cui accennavo poc´anzi. Mentre Lamberti si pone in maniera radicale sotto il segno di questa pittura, che io stesso non disdegno a definire persuasa da una scelta razionale di correre dietro all´immaginazione o meglio all´immaginario, non mi basta il duale tecnica/non tecnica per definire il tessuto di questo orizzonte. Lamberti ci mette in una posizione naturale di fronte al teatro della memoria ed aggiunge a questa naturalità, o fa passare questa naturalità, in un regime di dissimulazione onesta, fino a farci toccare quei resti cospiqui che vanno verso la medialità contemporanea. Così nella tendenza scettica dello sguardo alla contemporaneità e nella disponibilità al gioco si coglie una tramatura che va verso un "teatro da camera". Inoltre, trattandosi di teatro, diciamo che l´artista è immediatamente d’accordo con Jean Louis Barrault quando scriveva "Accontentiamoci di dire che il teatro, come la vita, è un sogno, senza preoccuparci troppo della menzogna". (Nuove riflessioni sul teatro). Il "Trafalgar in salotto" (1993), "Portatore di energia" (1993), "Le gioie e i dolori dell´amore" (1993), "La follia tiene i fili" (1993), "Il cavallino rosso" (1993) pongono delle domande sul senso della pittura. Il loro compito è quello di illustrare la prima interrogazione che si pone al campo estetico e la seconda che interessa la più vasta zona della vita contrapposta alla scena. Il quesito che ci è posto dalla enigmaticità delle immagini di Gabriele Lamberti è "se la scena è un luogo di morte" (o vicino alla morte) come diceva Jean Genet, "dove tutte le libertà sono possibili". Il pittore ama personalmente organizzare, sull´idea della macchina teatrale, un luogo di sogno che sia di delirio, altrettanto imponente come è imponente un teatro che si svolge nella stanza di casa, mentre tutti sono andati a letto e nelle altre camere si sono spente tutte le luci. "Il teatro è fattiva riflessione dell´uomo su se stesso" scriveva Novalis. Questo perché, prima di ricominciare a pensare socialmente, il sogno nella sua rappresentazione ha una dinamica dialettica che si rivolge a tutti gli uomini, apparendo come una secolarizzazione di se stesso. Per uscire dalla massmediazione avvilente in cui sono calati migliala di individui, Guattari suggerisce in una eventuale epoca postmediatica "una riappropriazione e una re-singolarizzazione dell´uso dei media". Ecco la breve possibilità che ha una immagine di "sintesi" come la pittura. Essa con l´esclusione dalla contemporaneità ha sviluppato al massimo l´istinto di sopravvivenza e, senza essere esente da antiche debolezze, fra cui emergono l´impulsività, la possibilità ed una smania di andare alla ricerca di sensazioni forti in ogni terreno, si presenta come un continente nascosto del teatro della memoria nel caso di Lamberti "al seno del quale (dice Felix Guattari) si giocherebbero le essenziali opzioni pulsionali, affettive e cognitive" (F. Guattari, in Derive/Approdi, numero uno, Milano 1993, pag. 10-11). Lamberti si serve, come abbiamo visto, delle analogie ("Nina", 1992; "Due tipi pavidi", 1993; "Venere dei balocchi", 1993; "Carillon", 1993) tra linguaggio ed inconscio o simulacro dell´inconscio, della loro comune dimensione transpersonale, per risolvere la razionalità della pittura nel teatro e l´assioma dell´identità dell´io infantile nel "se stesso della pittura-teatro". A questo punto col "Castello di Barbablù" oppure "Bobo & C.", Lamberti reintroduce lungo la scia testamentaria di dechirichiana e magrittiana memoria una funzione specifica del gioco che rivendica quasi una soggettivizzazione. In ogni quadro o in ogni esibizione "da camera" di Lamberti si sente la necessità di avere di fronte un soggetto, un soggetto che sostituisce le astrazioni di un Elefant Celebes (1921) di Max Ernst, quella componente più realistica della comunicazione-figurale che si fa immaginario puro. Su questo versante "Trafalgar in salotto" porta sullo sfondo la riproduzione di una foto di Nelson, due personaggi sulla balconata che guardano giù (quasi come se fosse una piscina) e due navi che stanno incendiando. Secondo Lamberti sono fuochi di guerra, fuochi che dall´alto organizzano l´avvistamento della battaglia, e la figura con la quale lo sguardo si identifica immediatamente è quella del gioco, del gioco crudele e feroce a cui assistiamo nel film "Toys". In fondo se si guarda attentamente in viso il personaggio del quadro del cyborg, che l´artista ha definito "Portatore di energia", il mento che è sotto la maschera e la stessa faccialità del casco visore ricordano la figura di Robocop. Le figure, in quanto strutture dell´immaginario, preesistente alla vicenda individuale dell´artista, assumono una dimensione trascendentale rispetto ad una probabile monocadenza temporale. Per strapparsi all´annichilimento del tempo il loro rapporto col passato e col presente coincide con la speculante del desiderio di non riconoscere una resa al simulacro. Ed è nel nome della macchina simulacrale che al simulacro non si lascia un effetto debole, decostruttivo, è nel nome della fisiologia tecnologica della macchina teatrale, schierata dalla visione della pittura, che le figure si trasformano in umanoidi senza fili, in caratteri che appartengono all´ordine della parata onirica, ma anche mediale. E la favola che si fa territorio della "menzogna" crudele e della maschera della recitazione che è chiusa in noi, quella realtà a cui accenna Franz Kafka nei Diari: "Non esiste altro mondo fuorché il mondo spirituale. Quello che noi chiamiamo mondo sensibile è il male nel mondo spirituale". Per Lamberti questa doppia sensazione del male e del bene, che si nasconde sotto le spoglie dei giocattoli, non si contrappone come poli antitetici. Come abbiamo detto, essi sono due posizioni nell´ordine del discorso della macchina teatrale, che solleticano quel che viene investito dalla maschera per trattenere la verità. Vi ricordate dell´atmosfera nel Boy with machine (1954) di Richard Linder, è pressapoco quella che ricorda spesso qualche tela di Gabriele Lamberti. Non sarebbe difficile ricondurre a questa comune matrice tutta la storia della meccanicità di una pittura a tratti simbolica e a tratti narrativa, letteraria. Ma contro questa determinazione segnica di Lindner, Lamberti è più morbido, più favolistico, non ha bisogno di passare attraverso le valvole burattiniche di Femand Léger, o quelle del movente cubo-futurista. Qui i burattini sono giocattoli articolatìssimi, fluidi, con sembianze profondamente barocche ed espressioni privilegiate di desideri sottesi dal malefico candore del dispetto infantile e della misura angusta di un film pastorale quanto quello degli "Allegri duelli" e dei "Dodici fantasmi nell´armadio". Gabriele Perretta (dal catalogo della mostra: GABRIELE LAMBERTI, Il Teatro della Memoria, Galleria Ruggerini & Zonca, Milano, nov./dic. 1993)
Gabriele Lamberti
Una questione di sguardo (dal catalogo della mostra "Il Teatro della Memoria", Galleria Ruggerini & Zonca, Milano, nov./dic. 1993) Testi Critici / 09 Dic 1993 Una questione di sguardo Affascinato dalle immagini, ho esplorato nel corso degli anni diversi mondi alla ricerca di quei segni che fossero in grado di rivelare un evento, che dicessero: "qui accade qualcosa". Mi incuriosivano soprattutto i simboli, le figure araldiche, quei segni carichi di grand... Gabriele LambertiUna questione di sguardo (dal catalogo della mostra "Il Teatro della Memoria", Galleria Ruggerini & Zonca, Milano, nov./dic. 1993) Testi Critici / 09 Dic 1993 Una questione di sguardo Affascinato dalle immagini, ho esplorato nel corso degli anni diversi mondi alla ricerca di quei segni che fossero in grado di rivelare un evento, che dicessero: "qui accade qualcosa". Mi incuriosivano soprattutto i simboli, le figure araldiche, quei segni carichi di grande suggestione, capaci di toccare le corde più gravi. Il repertorio che maggiormente frequentavo era quello dei simboli appartenenti ad una memoria collettiva. Ho trascorso un periodo della mia vita ad inseguire cifre arcaiche,labirinti, spirali. Sono passato attraverso l´infanzia dell´umanità. Ora la mia curiosità non è più rivolta a quell’ infanzia primigenia ed il mio sguardo non va più ad ispezionare la memoria ancestrale dei primi uomini ma quella più vicina degli individui che ancora popolano le nostre contrade. Le grandi storie sono diventate vicende comuni, sedimentate in qualche cassetto di quell’armadio ogni giorno più ampio che è la mia memoria. Nel ricordo le vicende si alterano, assumono conformazioni diverse dagli originali. I ricordi selezionano i sentimenti; gli episodi più semplici diventano rappresentazioni di fatti eccezionali, si colorano di toni irreali, misteriosi. La vita stessa che è scorsa e scorre con noi è il grande palcoscenico sul quale la memoria allestisce i suoi spettacoli. Estrae personaggi, li mette in scena, li fa agire a suo piacere. Ogni avvenimento ha cittadinanza in questo teatro poiché tutto ciò che accade lascia un segno e tutto ciò che accade merita di essere raccontato. Ci sono spazi poco conosciuti in noi, nei quali, seppur padroni di casa, entriamo come estranei. Basta una traccia esile per entrare e uscire: un oggetto, un volto, un suono, un odore possono far partire il meccanismo delle associazioni, delle analogie e l´oggetto dal quale siamo partiti si anima di una vita diversa che pur già ci appartiene. Non c´è bisogno di ricercare lontano per arricchire il nostro immaginario, basta guardare con occhi diversi quello che ci sta intorno ( - ne conviene Monsieur Proust? - ). La differenza qualitativa che distingue le cose del mondo esterno, è una questione di sguardo. Sono le relazioni che intercorrono fra il nostro spazio profondo sul quale agisce la memoria e lo spazio esterno ad alimentare i sentimenti. Le occasioni sono a portata di mano e coglierle è facile poiché è ancora solamente una questione di sguardo. La memoria non significa necessariamente nostalgia di tempi trascorsi dei quali rimane il rimpianto o il desiderio di rimozione. La memoria è un elemento vivificante, necessario ai meccanismi di conoscenza e di cultura. E il riconoscimento di un´identità personale e sociale: è ciò che garantisce la permanenza dei miti. In questo circuito della memoria affiora in lontananza la teoria platonica della reminescenza, poiché cosi come nelle mie opere faccio agire pupazzi, metto in scena simulacri di mondi, per Platone è la totalità stessa dell’ universo sensibile ad essere simulacro del mondo delle idee. Nel novero dei frequentatori celebri della memoria, mi piace pensare anche al teatro d´immaginazione di Calderon de la Barca, nel quale la confusione fra il piano della realtà e quello dell´immaginazione è l´elemento centrale o alle commedie a sfondo fantastico di Shakespeare come "La tempesta", "Sogno di una notte di mezza estate" o "Le allegre comari di Windsor", dove invenzione e tradizione si amalgamano dando vita a nuovi organismi. Esiste dunque un riferimento al teatro da camera sul modello seicentesco, ideato e scritto per essere messo in scena in uno spazio ristretto adatto ad un pubblico esiguo e basato su strutture e nuclei tematici fortemente simbolici, chiusi in modelli fìssi a svolgimento codificato. I temi di queste opere teatrali hanno caratteristiche di "exempla", didascalicamente orditi su tipi umani e comportamenti canonici. I giocattoli ai quali mi richiamo sono macchine teatrali della finzione, con i loro eroi di celluloide e di latta, simili alle costruzioni ariostesche dell´"Orlando Furioso". Invenzione e finzione sono i due elementi di questo teatro dei bambocci: riduzione del serio al faceto e viceversa, parafrasando Giordano Bruno quando nel "Candelajo" afferma: "In tristitia hilaris, in hilaritate tristis". Dire le verità più tremende con levità e rendere importanti le vicende banali non è solo una provocazione di facile presa, diventa invece un procedimento utile per aggirare i luoghi comuni della retorica e fecondo di spunti poetici. Trovo più interessante trasformare le verità in metafore piuttosto che fotografare la realtà cosi come appare. Poiché la realtà è comunque un dato ambiguo, inesistente allo stato neutro in quanto sottoposta sempre a manipolazioni, preferisco spingere sull’ immaginazione, sull´iperbole, esplorando il territorio dell´improbabile piuttosto che quello del verosimile. Così anche parodia e straniamento, come nell´opera dell´Ariosto, diventano due chiavi di lettura della mia narrazione. Sul filo della narrazione, la memoria ha il potere di rivisitare il passato, di riportare in scena persone e fatti già morti o consegnati alla storia. La rivisitazione della storia avviene senza l´enfasi che era propria degli anacronisti, ma con lo spirito monello di chi ha scorazzato sui libri illustrati, rifacendone il verso in maniera distorta e personalizzata. Si può così trascorrere senza troppi problemi il proprio tempo in compagnia di Antonio e Cleopatra. di Platone, di Orazio Nelson, di Barbablù o di Capitan Spazio. Ma poiché tutto si può raccontare, anche le ragazzine terribili dei nostri sogni o l´incidente occorso verso le sette alla signorina Teresa, potranno entrare a far parte di questa nostra galleria di eroi più o meno improbabili. Si ripresenta in questo modo la possibilità di creare un´opera senza tempo poiché in grado di attraversare tutti i tempi senza rimanere impigliata in nessuna periodizzazione. L´elemento attualizzante è solamente un certo uso del mezzo pittorico che risente delle luci, dei materiali sintetici, delle forme che accompagnano il nostro vivere contemporaneo. Dalle miniature gotiche ai fumetti, la pratica della pittura per raccontare storie è pratica antica ma ancora efficace e feconda. E più povera di altri linguaggi ma proprio per questo più ricca in potenza in quanto rinuncia alla tridimensionalità per condensare sulla superficie piatta, sorella della pagina scritta, segni e misure altrettanto efficaci alla comunicazione dei più ingombranti materiali da installazione. La pittura inoltre e una lingua più antica della scrittura ma più autonoma e più duttile, perchè essendo meno legata a fattori geo-politici è capace di più rapidi adattamenti e modificazioni. Dato che in un´epoca di sistemi telematici il mezzo pittorico risulta così povero e a portata di mano, vale ancora l’assunto che non occorre spingersi tanto lontano nella ricerca di tecniche espressive più sofisticate quando con questo mezzo si possono dire le stesse cose. Come sempre, non è una questione di strumenti ma di contenuti. La sperimentazione di nuovi strumenti tecnologici non arricchisce il pensiero che sostiene un´opera d´arte se non sul piano del significante. Paradossalmente non esiste differenza dal punto di vista del pensiero, fra un geroglifico e un messaggio telematico. La tecnica è solo un mezzo non il fine de l´arte. Ecco perché ritengo attuale la scelta di campo della pittura, in quanto ancora capace, come la poesia scritta, di supportare lo stesso pensiero sull´arte, sulla società, sulla vita, che può essere espresso dai più sofisticati sistemi telematici. Un nuovo immaginario collettivo ha invaso da tempo il nostro sguardo ed ha occupato il mondo della comunicazione per immagini. La comunicazione si avvale di linguaggi ormai consolidati quali lo spot pubblicitario, il cartoon, il fumetto. Questi linguaggi cosi come hanno contaminato il nostro immaginario, devono contaminare anche il mondo dell´arte, il quale, senza rinunciare alla prerogativa di comunicare pensieri, deve fare i conti anche con questi nuovi immaginari collettivi e con le icone che li rappresentano. Si aprono perciò nuove frontiere alla pittura se essa saprà cogliere questi spunti che le arrivano dalle discipline affini. I referenti saranno le storie che ognuno potrà costruire interagendo con quel sistema di segni che l´universo della comunicazione mette continuamente in moto. Interazione col sistema non deve significare comunque omologazione e appiattimento su standard indifferenziati. L´artista in questo universo di circuiti comunicativi, non può rinunciare alla propria originalità ed unicità, perché mediante la deviazione incontrollabile che subisce il segnale passando attraverso la sua manipolazione si opera quello scarto qualitativo che distingue un´emissione carica di energia vitale e capace di produrre pensiero da un´emissione meccanica, scarica di energia creativa e sterile di contenuti vitali. Detto questo, quella che qui viene presentata è "solamente" una mostra di quadri, tutto il resto a cui rimandano queste righe affrettate, potrà trovare riscontro solo nello sguardo dello spettatore al quale è offerta una delle possibili chiavi d´interpretazione. Gabriele Lamberti (dal catalogo della mostra: GABRIELE LAMBERTI, Il Teatro della Memoria, Galleria Ruggerini & Zonca, Milano, nov./dic. 1993)
Elena Pontiggia
PITTURA MEDIALE - Oltre la pop art Testi Critici / 09 Dic 1993 PITTURA MEDIALE Oltre la pop art Ricordi fiabeschi, figure bibliche o politiche: da Biancaneve a Mao. Il linguaggio e le immagini dei mass-media. Ma tutto è trasfigurato. Una nuova generazione si fa avanti con nuove proposte. E Gabriele Lamberti è uno dei protagonisti (ARTE – MONDADORI, N. 124 -... Elena PontiggiaPITTURA MEDIALE - Oltre la pop art Testi Critici / 09 Dic 1993 PITTURA MEDIALE Oltre la pop art Ricordi fiabeschi, figure bibliche o politiche: da Biancaneve a Mao. Il linguaggio e le immagini dei mass-media. Ma tutto è trasfigurato. Una nuova generazione si fa avanti con nuove proposte. E Gabriele Lamberti è uno dei protagonisti (ARTE – MONDADORI, N. 124 - Ottobre 1993) "Io appartengo a una generazione che non ha vissuto direttamente il Sessantotto, che ha consumato l´infanzia davanti ai caroselli televisivi e che nel momento di maggior vigore vede frantumarsi miti e utopie. Questi miti e utopie non sono comunque del tutto scomparsi, ne sono rimasti le larve, gli intenti. Nelle mie immagini srotolo la tela di tutti i miei intenti". Chi parla così è Gabriele Lamberti, 36 anni, bolognese: pittore che nel suo lavoro si ispira al fumetto, alla fiaba, al racconto d´infanzia, ma attraverso questi materiali "bassi" cerca di esprimere un insieme di significati che bassi non sono: "La mia scommessa è parlare di cose pesanti utilizzando cose leggere". Ma, per capire meglio che cosa intenda, vediamo più da vicino una sua opera, per esempio "Biancaneve addormentata", olio su tela, 1992. Su un letto innaturalmente obliquo, rosso fiammante, che si alza come un ponte levatoio davanti a una tenda di un viola profondo, dorme una Biancaneve dalla pelle d´avorio. Intorno a lei si dispongono immobili, silenziosi e stupefatti, sette nani dalla sagoma vagamente araldica, che vegliano Biancaneve contemplandola alla luce di una piccola candela. Il linguaggio di questa pittura si colloca a metà tra l´illustrazione di una fiaba e il cartone animato: l´immediatezza dell´immagine, i colori artefatti e senza variazioni tonali o stesure pittoricistiche, la semplificazione delle forme e l´approssimazione degli spazi si ispira al mondo dei sillabari, della televisione o dei comics. Ma attraverso questa scelta linguistica (che certo può disturbare con il suo apparente senso ludico, con il suo disimpegno ironico e con la voluta leggerezza fumettistica), Lamberti non si limita a raccontare una storia, una trama. Cerca invece di esprimere un sentimento di stupore, di meraviglia metafisica: i nani immobili che fanno da corona a Biancaneve scoprono, incantati, il mistero della femminilità. Inoltre, come in tutte le fiabe, anche qui la narrazione conserva un margine di ambiguità: i nanetti, che osservati meglio sono in realtà uno solo, una clonazione o un gioco di specchi, sembrano creature più inquietanti che innocenti. Non ci stupiremmo di qualche loro atto di crudeltà. Ma non basta. Dietro l´apparente semplicità popolaresca, Lamberti pone altri riferimenti, meno immediati e più classici: per esempio la reminiscenza dell´episodio biblico di Susanna e i vecchioni, o del mito di Eros e Psiche. La fiaba diventa allora una meditazione sul rapporto tra sacro e profano, tra bellezza e deformità, ma anche sulla distanza tra natura (Biancaneve che dorme) e cultura (i nani che riflettono), tra vita e teoria. Del resto anche le prime opere di Lamberti erano cariche di riferimenti colti: tra i suoi lavori giovanili figurano, ad esempio, forme araldiche astratteggianti, ispirate a certe miniature gotiche o a certi bestiari romanici. Dal mondo dei "primitivi" trecenteschi al mondo "primitivo" dell´infanzia il passo non è stato lungo. E così Lamberti ha cominciato a ripensare certi personaggi letterari, tratti da Shakespeare, da Dante, da Baudelaire, dando loro l´aspetto di orsacchiotti o di fumetti disneiani. La stessa cosa ha fatto con personaggi politici, da Mao a Marx, a "Che" Guevara. Oppure con luoghi mitici e ideologici: per esempio, ha dipinto il Cremlino come una torta con le candeline, giocando sull´assonanza tra Cremlino e crema. Come si vede, il procedimento di queste opere è opposto a quello della pop art, a cui qualcuno ha voluto accostarle. Mentre nella pop art, soprattutto americana, l´oggetto comune viene elevato a dignità d´arte con tutta la sua volgarità e la sua aggressività (la minestra in scatola non pretende di essere altro che minestra in scatola), qui si parte dal linguaggio basso, ma nell´intento di nobilitarlo, di caricarlo di significati. Insomma, nell´intento di "produrre scintille facendo cozzare l´aulico col prosaico", come diceva Eugenio Montale parlando di Guido Gozzano, con una frase che lo stesso Lamberti cita in un suo scritto. L´apparente divertimento nasconde una forma di malinconia, e in fondo il mondo dipinto dal pittore bolognese è un mondo di personaggi vinti, sconfitti dal potere o dalla storia, inermi come un pupazzo. Oppure un mondo di vincitori-giocattolo, burattini anch´essi non meno delle loro vittime. Circa due anni fa il critico Gabriele Perretta ha raggruppato queste opere, insieme con le opere di altri artisti come Maurizio Cannavacciuolo, Sergio Cascavilla, Santolo De Luca, Enrico de Paris, Igort, Ronald Kastelic, Luigi Mastrangelo, Antonella Mazzoni, Gian Marco Montesano, Fabrizio Passarella, Stefano Pisano sotto l´etichetta di "Pittura mediale", intendendo con questa espressione una pittura che si ispira nello stile e nella tecnica narrativa ai mass-media (cinema, fumetto, televisione) e all´iconografia popolare. Nel caso del lavoro di Lamberti, peraltro, bisognerebbe citare anche l´influsso, magari non riconoscibile a prima vista ma esistente, di artisti e movimenti da lui molto amati: dal doganiere Rousseau a Balthus, dal realismo magico di Donghi a Savinio al Carrà primitivista, fino al neosurrealismo di Milan Kunc. D´altra parte, fumetti e fiabe Gabriele Lamberti li conosce bene. Non solo li ha divorati durante l’infanzia: un´infanzia trascorsa, come si è detto, a Bologna, dove è nato da una famiglia che lui definisce proletaria (e forse da queste origini, anche, gli è derivata la sensibilità per forme espressive popolari). Ma soprattutto si è trovato a riflettere sulle fiabe lavorando come maestro elementare, dopo gli studi all´Accademia di Bologna. E non c´è come riavvicinare le fiabe da adulti (lo studioso russo Vladimir Propp insegna) per scoprirne la ricchezza dei significati, la complessità dei simboli, la funzione catartica: la capacità di placare le ansie del bambino, riproducendo a tutto tondo una lotta tra il bene e il male che si conclude con un lieto fine. “Saranno gli orsi di peluche a guarirci dall´ansia”, dice Lamberti. Quello che gli interessa, comunque, non è tanto un problema di linguaggio, di stile, di forma. Quello che più gli preme è esplorare la potenzialità di certi stereotipi, lavorare su un immaginario nuovo attraverso i mezzi tradizionali della pittura a olio, scoprire che con la pittura si può ancora tornare a comunicare, a narrare, a inventare figure e storie. La pittura, appunto. Pur appartenendo a una generazione che sempre più spesso ha abbandonato tele e pennelli per installazioni e materiali extrapittorici, Lamberti è rimasto fedele alla pittura. Certo, c´è nel suo lavoro una dimensione e meglio un´ascendenza concettuale: non cerca la bella pittura in quanto tale e in questo senso è anche un erede di quella voluta trascuratezza espressiva iniziata con gli anni Ottanta. Ma al dipingere non vuole rinunciare: "La pittura non ha mai fatto funerale", dice, "la pittura è una lingua viva´. Elena Pontiggia
Maria Luisa Frisa
Homo homini lupus Testi Critici / 09 Dic 1992 Homo homini lupus Misterioso è il narrare di Gabriele Lamberti. Egli mette in scena teatrini crudeli dove si manifestano favole, sogni, visioni. Si compongono così sulla tela eventi sospetti che diventano sottilmente storia universale, sogno di una moltitudine. Bellezza e paura I personaggi di ... Maria Luisa FrisaHomo homini lupus Testi Critici / 09 Dic 1992 Homo homini lupus Misterioso è il narrare di Gabriele Lamberti. Egli mette in scena teatrini crudeli dove si manifestano favole, sogni, visioni. Si compongono così sulla tela eventi sospetti che diventano sottilmente storia universale, sogno di una moltitudine. Bellezza e paura I personaggi di Lamberti sono noti, sono maschere a cui è riconosciuto un ruolo preciso. Nelle tele dell’artista però inevitabilmente si ribellano al ruolo imposto e recitano parti sbagliate, si divertono a scambiarsi l´anima, godono a fare il contrario di quello che ci aspettiamo da loro. La vertigine che ci danno queste opere è dovuta al sovvertimento di una regola. Cè il passaggio costante a un nuovo ordine di rapporti. Allora se miracolosamente all’inizio del nostro cammino, per qualche tempo siamo nel centro, lo decifriamo, appena più avanti paesaggi ignoti prendono il posto ai nostri primi giardini, figure crudeli si affacciano da volti rassicuranti. L´immagine svela un avvenimento significativo: orditi di corrispondenze, qualità magnetica degli oggetti, subito fatti talismani, pegni o blasoni... L´esasperante meccanica delle solite storie è scompaginata dalle nuove regole. Agisce una nostalgia della pittura, di immagini che sappiano ancora raccontare: avvicinarsi ai fatti ma con l’intervento della fantasia. Nostalgia che guarda avanti, sentimento forte che vuole emozioni adeguate. Agisce la consapevolezza che a noi spetta il compito di evocare un nuovo repertorio di immagini. Maria Luisa Frisa (dal catalogo della mostra: Ottovolante, G.A.M. di Bergamo, 1992)
Roberto Daolio
IL SORRISO DEL LUPO VELATO Testi Critici / 09 Dic 1989 IL SORRISO DEL LUPO VELATO Anche la storia è fatta di "c´era una volta". Anche i miti, o meglio, i racconti mitici. Perduti negli abissi senza tempo, rinascono a nuova vita ogni volta che un cantore o un narratore libero e audace ne ridisegna i tratti e i contorni per un nuovo scenario. Così, il... Roberto DaolioIL SORRISO DEL LUPO VELATO Testi Critici / 09 Dic 1989 IL SORRISO DEL LUPO VELATO Anche la storia è fatta di "c´era una volta". Anche i miti, o meglio, i racconti mitici. Perduti negli abissi senza tempo, rinascono a nuova vita ogni volta che un cantore o un narratore libero e audace ne ridisegna i tratti e i contorni per un nuovo scenario. Così, il gioco si ripete sempre uguale e sempre diverso. Così le forme e le figure di un immaginano epico e cosmologico riprendono a pulsare nonostante le codificazioni, le analisi critiche e lo svelamento delle funzioni. Così, il "bestiario" inanimato e irriverente, ludido e accativante di Gabriele Lamberti attraversa la natura simbolica delle immagini per riqualificarle al pieno piacere dell´occhio. Operazione tutt´altro che facile, perché significa allontanarsi dai meccanismi di una percezione distratta e abitudinaria, oziosa ed indifferente, per sollecitare invece il risvolto paradossale, il contrasto stridente o l´accento marcato. Vuoi in chiave di possibile citazione còlta e raffinata, vuoi in termini gergali e di immediato riferimento mass-mediale. Non per niente il richiamo al mondo e al linguaggio dei cartoons e dei fumetti è ostenato e ricalcato, nelle più efficaci qualità di sintesi grafica e di violenta e artificiale resa cromatica. Così come la ieratica fissità cartellonistica ammicca alla raggelata staticità delle icone bizantine o alle sacre "ierofanie" dei fondi oro.... Tuttavia il disincanto non è classificabile come blasfemo ed irriverente, in quanto la sostituzione zoomorfa rivendica a sé un destino contemporaneo, giocato sulla demistificazione ideologica e sull´intercambiabilità mitica e feticistica. Orsacchiotti parlanti per aforismi e lupacchiotti sorridenti e velati si prestano a sostenere il ruolo attivo di sofisticati trade-mark e di suadenti persuasori "palesi". Il racconto per immagini del mondo transista all´interno di una rappresentazione prosaica, quotidiana e banale; ma l´artista, ricodificando lo stereotipo senza spessore di tanto immaginario di consumo, ne conserva e ne mantiene il grado misterioso ed inviolato. Roberto Daolio (in occasione della mostra: FABULAE FICTAE, Azzurra Show Room, Bologna, febbraio 1989)
Vittoria Coen
"Il poeta ubriaco" ovvero autoritratto dell´autore nella forma del Salvatore Testi Critici / 09 Dic 1988 Simboli, linguaggi giocati su assonanze, volute o casuali, rimandi al passato comune o individuale e interferenze polistilistiche sono soltanto alcuni degli elementi che svolgono oggi un ruolo importante nell´arte. Portavoce del dubbio permanente, l´artista che si interroga esprime come unica cost... Vittoria Coen"Il poeta ubriaco" ovvero autoritratto dell´autore nella forma del Salvatore Testi Critici / 09 Dic 1988 Simboli, linguaggi giocati su assonanze, volute o casuali, rimandi al passato comune o individuale e interferenze polistilistiche sono soltanto alcuni degli elementi che svolgono oggi un ruolo importante nell´arte. Portavoce del dubbio permanente, l´artista che si interroga esprime come unica costante il forte disinganno nato dall´esaurirsi delle certezze. L´ironia non è quindi la maschera dietro la quale si nasconde il dramma, ma è essa stessa dimensione ininterrotta della ricerca, di chi produce ma anche di chi guarda l´opera d´arte. Non si tratta infatti di un dubbio amletico, non sembra che una sospensione di giudizio, utile all´esploratore che si avventura nei campi, arati e non, della tecnica, del mezzo, della scoperta sempre nuova e della riscoperta sempre eccitante. Armato della sua individuale creatività l´artista spia le forze implicite, le possibilità espressive, le analogie, le affinità, le armonie, e con altrettanto entusiasmo e curiosità i contrasti, le disarmonie, le tensioni. I modi di traduzione del dubbio sono perciò infinitamente variabili, al di là delle mode e di qualsiasi predisposizione. Nei lavori di Gabriele Lamberti parlano le immagini di un´evidente allegoria. Forme piatte disegnano soggetti mitici, trascesi da un repertorio iconografico complesso in cui fonti orientali e fonti occidentali, come in passato, si mescolano in un ritrovato desiderio di comprendere i nostri meccanismi antropologici. Gli animali dai colori accesi circondati da inquadrature appena accennate sono fantocci volutamente impersonali. Quello che li caratterizza e da loro spessore è il gesto che descrivono, inequivocabile nella sua apparente contraddittorietà di significante e di significato, del voluto infantilismo segnico e della citazione colta. Il gesto descritto è l´elemento che rimanda al significato, alla provocazione ironica, a parlare dichiarando un´apparente leggerezza. Scrittura fluida per immagini simboliche ed emblematiche, punti interrogativi di carattere universale, mondi possibili da cui la nostra mente attinge la voglia di creare. "Il poeta ubriaco" (è il titolo di un lavoro) è l´artista stesso che lascia aperta la possibilità all´imprevisto, al perché non spiegato, all´interpretazione individuale di cui si fa veicolo. Il linguaggio stilizzato, essenziale, acceso dai voluti contrasti cromatici, descrive un´immagine araldica. Appare ai nostri occhi il dato trasfigurato, ironizzato, il dato che si fa puramente mentale nel momento della rappresentazione di una ripetitività ormai codificata dalla storia, di una stesura solo apparentemente riconoscibile ma alterata profondamente nella sua sostanza. Vittoria Coen (dal catalogo della mostra: I quaderni del S. Sebastiano, Oratorio di S. Sebastiano Forlì, 1988) Simboli, linguaggi giocati su assonanze, volute o casuali, rimandi al passato comune o individuale e interferenze polistilistiche sono soltanto alcuni degli elementi che svolgono oggi un ruolo importante nell´arte. Portavoce del dubbio permanente, l´artista che si interroga esprime come unica costante il forte disinganno nato dall´esaurirsi delle certezze. L´ironia non è quindi la maschera dietro la quale si nasconde il dramma, ma è essa stessa dimensione ininterrotta della ricerca, di chi produce ma anche di chi guarda l´opera d´arte. Non si tratta infatti di un dubbio amletico, non sembra che una sospensione di giudizio, utile all´esploratore che si avventura nei campi, arati e non, della tecnica, del mezzo, della scoperta sempre nuova e della riscoperta sempre eccitante. Armato della sua individuale creatività l´artista spia le forze implicite, le possibilità espressive, le analogie, le affinità, le armonie, e con altrettanto entusiasmo e curiosità i contrasti, le disarmonie, le tensioni. I modi di traduzione del dubbio sono perciò infinitamente variabili, al di là delle mode e di qualsiasi predisposizione. Nei lavori di Gabriele Lamberti parlano le immagini di un´evidente allegoria. Forme piatte disegnano soggetti mitici, trascesi da un repertorio iconografico complesso in cui fonti orientali e fonti occidentali, come in passato, si mescolano in un ritrovato desiderio di comprendere i nostri meccanismi antropologici. Gli animali dai colori accesi circondati da inquadrature appena accennate sono fantocci volutamente impersonali. Quello che li caratterizza e da loro spessore è il gesto che descrivono, inequivocabile nella sua apparente contraddittorietà di significante e di significato, del voluto infantilismo segnico e della citazione colta. Il gesto descritto è l´elemento che rimanda al significato, alla provocazione ironica, a parlare dichiarando un´apparente leggerezza. Scrittura fluida per immagini simboliche ed emblematiche, punti interrogativi di carattere universale, mondi possibili da cui la nostra mente attinge la voglia di creare. "Il poeta ubriaco" (è il titolo di un lavoro) è l´artista stesso che lascia aperta la possibilità all´imprevisto, al perché non spiegato, all´interpretazione individuale di cui si fa veicolo. Il linguaggio stilizzato, essenziale, acceso dai voluti contrasti cromatici, descrive un´immagine araldica. Appare ai nostri occhi il dato trasfigurato, ironizzato, il dato che si fa puramente mentale nel momento della rappresentazione di una ripetitività ormai codificata dalla storia, di una stesura solo apparentemente riconoscibile ma alterata profondamente nella sua sostanza. Vittoria Coen (dal catalogo della mostra: I quaderni del S. Sebastiano, Oratorio di S. Sebastiano Forlì, 1988) |